mercoledì 25 marzo 2015

... O Sanguina

Ecco il mio ultimo (sofferto) cortometraggio Una giovane killer incontra il suo vecchio capo. Forse un vecchio amore rinasce o forse...

lunedì 30 settembre 2013

In arrivo il mio nuovo cortometraggio "O tace... o sanguina" A Crime Story

mercoledì 27 marzo 2013



Questo è un cortometraggio di cui ho scritto la sceneggiatura

sabato 2 giugno 2012

Nuoce gravemente alla salute

Questo è il mio primo cortometraggio.
Un dialogo fra un regista sfortunato e un angelo distratto

martedì 17 aprile 2012

Il ritorno


Era il 14 di Adar. I fedeli stavano uscendo dalla sinagoga dove avevano celebrato
la festa di Purim. Alcuni uomini tenevano per mano i figli che si divertivano ancora a fare un gran baccano con i sonagli e i pezzi di legno.
Un padre rimproverava suo figlio: - Ti avevo detto che il sonaglio si deve suonare solo quando viene pronunciato il nome di Haman. Solo quello è il momento di fare
baccano! Tutti mi guardavano. Mi hai fatto vergognare!
Un giovane ubriaco dal passo incerto, sostenuto da un amico che lo reggeva per
le spalle, passò davanti alla sinagoga e si fermò per un attimo a guardare la gente che usciva.
Un mendicante gli si avvicinò: - Vi prego, signore. Nel nome di Dio...
- Vattene, maiale puzzolente. Non vedi che ho da fare? – rispose infastidito. –
Devo celebrare la festa di Purim! – E scoppiò in una fragorosa risata.
- Ti prego, signore. Un piccolo aiuto per vivere...
- Vattene ti ho detto. Non hai sentito?
Ma il mendicante insistette. Allora il giovane si divincolò dalle braccia dell’amico e
si gettò su di lui percuotendolo con calci e pugni. Poi, barcollando, fece per allontanarsi,
ma il mendicante, sputando il sangue che gli riempiva la bocca, mormorò: - Me lo merito. Per me è giusto così, ma guarda bene che non accada anche a te di diventare come me.
Ma il giovane udì quelle parole e si voltò: - Che cosa hai detto maiale schifoso?
Hai anche il coraggio di maledire?
- No, signore. Non ti stavo maledicendo. Io sto ricevendo con queste percosse un
giusto castigo. Ma ti stavo augurando di non meritarlo anche tu pure.
- Che cosa vuoi dire? Che castigo dovrei meritare?
- Ancora niente. Ma io mi rivedo in te. Perché io ero proprio come te.
- A me non importa quello che eri. Vattene se non ne vuoi ancora!
Un altro mendicante gli si avvicinò e lo prese per un braccio: - Andiamo, ormai non
c’è più nessuno. Non perdere tempo qui. Vuoi prendere altre botte?
Ma il mendicante continuava a fissare il giovane e sembrava non volersene
separare.
L’altro mendicante insisteva: - Sbrighiamoci. Dall’altra parte del villaggio la festa
nella sinagoga non è ancora finita. Se ci affrettiamo possiamo arrivare in tempo per
l’uscita.
Infine il mendicante si lasciò condurre via, mentre il giovane ridendo
sgangheratamente se ne andava dalla parte opposta.
Arrivarono alla sinagoga proprio mentre l’archisinagogo chiudeva la porta.
- Troppo tardi – disse l’anziano. – Se ne sono andati tutti. Ma tenete, questo è per
voi. – E diede loro una moneta per uno. Poi rientrò nella sinagoga e sprangò l’uscio
dall’interno.
I due mendicanti si sedettero per terra addossati alla parete. Il secondo
mendicante tirò fuori con calma una borsa da sotto la tunica sfilacciata e cominciò a
contare gli spiccioli che aveva raccolto.
- Tredici denari in tutto. Ci posso mangiare per tre giorni. Tu quanto hai fatto?
- Non lo so. Adesso non ho voglia di contarli.
- Ti fa ancora male il labbro?
- Non è il labbro che mi fa male.
I due rimasero in silenzio rimuginando i propri pensieri. Poi il secondo mendicante
estrasse da una bisaccia un pezzo di pane mezzo morsicato e si mise a mangiarlo con
gusto.
- Ma davvero tu eri come lui? – chiese ad un tratto.
- Si.
- Come ti chiami?
- Ti interessa davvero saperlo?
- Beh, non abbiamo niente da fare, non è ancora notte... possiamo anche fare
quattro chiacchiere. Non hai l’aria di uno che è cresciuto sulla strada.
- No – rispose con un sospiro. – Mi chiamo Samuele. Sono figlio di un proprietario
terriero di Gadara, nella Decapoli. La mia famiglia è della tribù di Beniamino. In famiglia,
anche se viviamo in mezzo ai gentili, siamo sempre stati molto osservanti della legge.
« Mio padre aveva due figli: mio fratello, il maggiore, grande lavoratore, molto
serio, e me, più giovane di lui di dieci anni, tutto l’opposto. Ero ricco, scapestrato,
preferivo le feste con gli amici al lavoro dei campi. Proprio come quel giovane di poco fa.
- Fossi stato io al tuo posto non avrei chiesto di meglio. E allora? Come sei finito
così?
- Mio padre mi lasciava fare perché aveva un debole per me. Mio fratello invece
non mi sopportava, forse proprio per questo. Gelosia, invidia... Forse temeva che mio
padre mi avrebbe fatto erede di tutti i beni della famiglia, non lo so. Non perdeva
occasione per rimproverarmi davanti a lui e maltrattarmi appena ne aveva l’occasione.
Ma mio padre prendeva spesso le mie difese. Era buono, mio padre.
- E’ morto?
Samuel chiuse gli occhi e deglutì un groppo: - Si - disse in un sussurro.
- E che cosa è successo poi?
- Anche se ero un po’ irresponsabile, ho sempre rispettato la legge e tutti i
seicentotrentatre precetti.
« Ma un giorno, mentre mi trovavo in Giudea, a Lidda, vidi nella piazza un gruppo
di persone che ascoltava un rabbi che predicava. Mi informai con un passante e seppi
che era Gesù, il rabbi di Nazareth, di cui si faceva un gran parlare. Incuriosito mi
avvicinai e ascoltai una disputa con alcuni farisei che gli avevano posto una questione a
proposito del ripudio. Mi piaceva quel modo di parlare, ne fui affascinato. Quell’uomo
aveva un modo di spiegare la legge così semplice che in nessuna sinagoga avevo
trovato.
« Vidi che stava per andarsene e allora, per trattenerlo ancora un po’ e sentirlo
ancora parlare mi feci avanti e gli posi una domanda: “Che cosa devo fare per avere la
vita eterna?” gli chiesi. “Osserva i comandamenti”, mi rispose. Quella risposta mi deluse
un po’. Avrei potuto ricevere la stessa risposta in qualunque sinagoga. Ma insistetti e gli
dissi: “Questo lo faccio fin da bambino”. Allora mi guardò, uno sguardo che non
dimenticherò mai. Sembrava che con un’occhiata avesse visto tutto quello che c’era in
fondo al mio cuore, ma non era rimprovero. Sembravano piuttosto gli occhi di un amico
che finalmente ha l’occasione di dirti qualcosa di veramente importante, di prezioso per
lui e per te. “Se vuoi essere perfetto”, disse, “va', vendi quello che possiedi, dallo ai
poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”.
« Quello sì che non l’avei sentito dire in nessuna sinagoga! Fu come uno schiaffo,
di quelli che ti risvegliano dai sogni, che ti riportano alla realtà. Non sapevo che cosa
rispondere. Rimasi lì, fermo, a fissarlo imbarazzato per un po’, poi me ne andai.
« Mi aveva deluso, non poteva chiedermi questo. La ricchezza è una benedizione
di Dio. La Scrittura lo ripete molte volte. Come poteva chiedermi di dare tutto ai poveri?
Non davo forse l’elemosina ogni sabato? Perché lasciare tutto? E poi di che cosa avrei
vissuto?
« Pensavo a queste cose mentre mi allontanavo, eppure dovevo ammettere che
quell’uomo mi aveva rivelato una cosa che sentivo già dentro al cuore da tempo, ma che non avevo mai avuto il coraggio di ammettere: a me la ricchezza piaceva tanto, ma così tanto che avrei fatto qualunque cosa per averne sempre di più.
« Eh, lo so. Solo adesso, guardandomi, capisco quanto fossi stupido. Eppure a
quel tempo, nonostante la pensassi così, non stavo facendo niente per accrescere la
ricchezza che possedevo. Anzi stavo sciupando quella di mio padre senza lavorare.
« Decisi allora di tornare da lui e mettermi anch’io in affari. Presto, sognavo, avrei
superato anche lui quanto a ricchezze e beni in questo mondo.
« Così partii per tornare al mio paese, ma lungo la strada incontrati una carovana
di commercianti greci che faceva la mia stessa strada e così mi unii a loro.
« Il capo si chiamava Demetrios e commerciava porpora con l’Arabia e con la
Grecia. Seppi così che la porpora era molto richiesta, soprattutto a Roma, e che chi
aveva un po’ di danaro avrebbe fatto facilmente un gran guadagno investendolo in un
carico di porpora da piazzare sul mercato della capitale dell’impero.
« Con questo sogno di facili e mirabolanti ricchezze, arrivato a casa di mio padre
non esitai a chiedere una grossa somma di danaro da investire in una partita di porpora.
« Mio padre cercò di dissuadermi cercando di farmi capire che se avevo voglia di
lavorare avrei potuto andare in campagna ad aiutare mio fratello, e questo avrebbe forse migliorato anche i nostri rapporti.
« Ma io non volli sentire ragioni e per giorni insistetti nella mia richiesta, finché un
giorno, esasperato per l’ultimo litigio, dissi a mio padre: “Io me ne vado. Dammi la parte
che mi spetta”
« Per mio padre fu come una pugnalata la cuore. Cercò di dissuadermi, ma io
ormai ero irremovibile. Ero disposto a tutto pur di seguire il mio sogno.
« Così qualche giorno dopo mio padre vendette metà delle sue terre, mise il
denaro in un forziere mi dette la chiave davanti a mio fratello. “Questo, figlio mio”, mi
disse, “è la ferita più grave che potessi farmi. Con questo atto non hai diviso solo le
nostre proprietà, ma hai spaccato in due anche il mio cuore. E adesso va, e che
l’Altissimo abbia pietà di te”
« Mio fratello non disse niente. E non venne neppure a dirmi addio alla partenza.
Per lui, ormai, era come se non fossi mai esistito.
« Ma di mio fratello non mi curavo. Avevo un forziere pieno di denaro, l’asino
carico e il cuore gonfio di ambizioni. Davanti a me si apriva un mondo pieno di piaceri,
divertimenti e ricchezze a non finire. Quanto il mio cuore fosse cieco lo imparai molto
presto.
« Andai nella Siro-Fenicia e mi stabilii a Tiro, nella zona del porto. Comprai subito
una casa e cominciai a cercare di concludere qualche buon affare. Ma il porto di Tiro
aveva anche altre attrattive oltre agli affari. In poco tempo sperperai con le donne e il
gioco metà del capitale.
« Allora, per non rischiare di non rimare del tutto senza risorse, grazie alle
conoscenze che avevo fatto nelle osterie, cercai una spedizione di porpora da finanziare.
« La trovai nel giro di una settimana: un mercante della Perea cercava un
armatore che gli mettesse a disposizione una nave per trasportare a Roma un carico di
porpora. Al ritorno si sarebbe fatto a metà con il guadagno. Sembrava l’affare fatto
apposta per me. Andai di corsa da un mio conoscente che possedeva una nave, non
molto grande, ma sufficiente a contenere il carico, e che sapevo voleva vendere. La acquistai e la pagai con tutto il denaro che mi rimaneva, ma non era sufficiente e ci
mettemmo d’accordo che il resto glielo avrei dato al ritorno del mercante, quando ci
saremmo divisi il guadagno.
« Ma il carico non arrivò mai a destinazione. Una settimana dopo la partenza la
nave fece naufragio. Qualche marinaio si salvò, ma il carico andò perduto e il mercante
annegò. E io ero sul lastrico.
Il sole stava ormai scendendo oltre l’orizzonte e Samuele interruppe il racconto.
Girò lo sguardo sul compagno e vide che stava sonnecchiando.
Allora si alzò e si allontanò con passo un po’ incerto alla ricerca di un rifugio per la
notte. Il labbro si era gonfiato e pulsava dolorosamente.

                   ***

Camminò per dieci miglia, finché, ormai in piena notte, di fermò sotto un albero e
si addormentò.
Il mattino seguente raggiunse la città di Arimatea e andò subito sulla piazza del
mercato e, appoggiato ai piedi di una colonna cominciò a mendicare.
Non era ancora mezzogiorno quando udì un tramestio di folla che proveniva
dall’ingresso della piazza. Ragazzi e adulti, commercianti e contadini, si alzavano e
correvano da quella parte. Fermò un ragazzo e gli chiese che cosa stesse succedendo.
- E’ il rabbi di Nazareth! – rispose. - Lo aspettavamo da ieri. Il mio padrone
Giuseppe ci aveva messi tutti all’erta.
Il rabbi di Nazareth...
Non aveva il coraggio e neppure la forza di alzarsi. Il cuore in tumulto, non sapeva
che cosa fare. Così non fece niente. Si rannicchiò nascondendo il volto fra le ginocchia
mentre un singhiozzo lo scuoteva.
Il rumore veniva verso di lui. Allora alzò lo sguardo e vide tra il velo delle lacrime
che il rabbi si era seduto sotto il suo stesso portico, distante circa una ventina di passi.
D’improvviso di fece silenzio e la voce del maestro echeggiò sotto le volte del
portico giungendo fino a lui, chiara e limpida.
- Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: “Padre, dammi la parte
del patrimonio che mi spetta”. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.

                   ***

La notizia arrivò con il marinaio superstite del naufragio. Una nave lo aveva
raccolto al porto di Malta e lo aveva riportato a Tiro.
Vennero dei conoscenti a riferirgli il fatto mentre era in un’osteria proprio insieme
al suo creditore.
- O paghi entro un mese – gli disse l’uomo. – Oppure mi prendo i tuoi beni e te
stesso e ti faccio schiavo per debiti finché non mi avrai pagato fino all’ultimo spicciolo.
Poi se ne andò senza nemmeno salutare.
Alla scadenza del termine, naturalmente, non aveva di che pagare e così,
trascinato davanti al giudice, venne giudicato colpevole e condannato alla schiavitù
finché non avesse pagato l’intero debito.
                  
                     ***

- Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo
mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che
mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
« Allora rientrò in se stesso e disse: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno
pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato
tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

                    ***

Seduto su un monticello di terra osservava la mandria di porci che grufolava nel
querceto. Il suo nuovo padrone aveva proprio avuto un pensiero gentile...
Gli aveva sputato in faccia tutto quello che pensava degli ebrei e della loro
schizzinosità nel trattare con i gentili. E gli aveva affibbiato un lavoro fatto apposta per lui e per quelli della sua razza, per abbassare la loro superbia.
Ma quella sera l’avrebbe fatta finita. Aveva già notato il varco della recinzione. Con
il favore delle tenebre si sarebbe dileguato nella boscaglia. Poco gliene sarebbe
importato al suo padrone. La perdita subita non era poi così grande. Più che altro quella
condizione di schiavitù era un atto di vendetta verso quelli della sua razza.
Comunque poco importava. Certo suo padre non l’avrebbe accolto a braccia
aperte, ma almeno un pezzo di pane non glielo avrebbe negato. Non aveva più diritti, lo
sapeva, ma, anche come contadino, in quelle terre si sarebbe trovato sicuramente
meglio che a pascolare porci.

                   ***

- Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide
e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
« Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più
degno di esser chiamato tuo figlio”.
« Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo,
mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo,
mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era
perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa”.

                   ***

La casa era ancora come la ricordava. Lì vicino scorreva il ruscello in cui da
piccolo aveva sguazzato tante volte.
Sull’aia non c’era nessuno, e neppure nei campi all’intorno. Sembrava tutto
abbandonato, ma sapeva che non era così. Poco prima di arrivare in vista del paese
aveva visto un ragazzino che lo aveva riconosciuto ed era scappato via.
Giunto di fronte alla porta esitò, incerto se bussare o attendere che qualcuno
uscisse. Dov’era suo padre?
Lentamente la porta si aprì e uscì suo fratello.
Lo fissava senza dire nulla.
- Dov’è mio padre? – chiese.
- Chi sei?
- Sono tuo fratello, non mi riconosci?
- Io non ho fratelli. Quello che avevo è morto. E morto è anche mio padre,
pugnalato al cuore proprio da lui. Vattene, non voglio assassini sulla mia terra.
Il silenzio si fece di piombo. D’improvviso percepì tutta l’ostilità degli sguardi che lo
osservavano da dietro le tende. I cani si erano accucciati con il muso fra le zampe, le
galline che di solito razzolavano nell’aia, erano sparite. Neppure gli asini ragliavano.
Lentamente si voltò e incespicando se ne andò verso la boscaglia.

                    ***

Le lacrime scorrevano silenziose mentre la folla lentamente si disperdeva. Con il
volto nascosto tra le ginocchia non vide l’uomo che si era fermato davanti a lui.
D’un tratto si accorse dell’ombra che gli aveva coperto il sole e sollevò lo sguardo.
Davanti a lui c’era il rabbi di Nazareth che lo guardava.
- E’ morto – riuscì a dire tra i singhiozzi. – Non mi ha perdonato. Non è andata
come hai detto tu.
- Non è vero – disse il rabbi. E chinatosi lo prese per le spalle, lo fece alzare e gli
sollevò il volto rigato di lacrime impastate di polvere.
Allora, di fronte a quello sguardo, Samuele capì. E il rabbi lo abbracciò con
l’intensità e l’affetto che solo un padre può avere.
- Ora puoi seguirmi. Ben tornato a casa, figlio mio.



Un lungo e profondo respiro

- Gli operai hanno caricato tutti gli sgabelli. Faccio caricare anche il tavolo?
No. Per ora mandate a Samuel i sedili. Ditegli che gli manderò il tavolo con il secondo viaggio. Non abbia paura, non intendo imbrogliarlo. Non più.
Il servo si ritirò lasciandolo solo nella grande stanza ormai quasi vuota. Restava solo il lungo tavolo.
La sala delle feste. Non restava molto dei drappi finissimi delle pareti, dei triclini e dei sedili finemente intagliati, dei cuscini di Damasco, degli ori di Arabia, dei tappeti preziosi e del vasellame cinese che aveva fatto venire apposta attraverso la Persia. Quante feste aveva fatto lì, donne e vino a fiumi. I romani venivano apposta da Cesarea per partecipare alle orge del più ricco e più spietato appaltatore d’imposte di Gerico.
Quella stanza aveva visto il culmine del suo successo. E l’inizio della sua nuova vita, soprattutto quel tavolo.
Quanto tempo è passato? Solo due settimane? Incredibile, mi sembrano secoli.

***

Quella mattina gli attacchi di asma erano più forti del solito. Un senso di oppressione, di soffocamento, con un respiro che non voleva arrivare fino in fondo. Era come se i polmoni che non ne volessero sapere di riempirsi.
Gli succedeva sempre così quando lo prendevano quegli strani momenti di depressione. Una inquietudine, una specie di sensazione ai margini della coscienza che qualcosa nella sua vita non andava. Ma che cosa non andava? Era l’uomo più ricco di Gerico, l’esattore delle imposte più efficiente della regione. I romani avrebbero faticato parecchio per trovare un altro come lui. Aveva denaro e potere. E donne, se ne voleva.
Pensieri che si affacciavano dapprima guardinghi, come topi che escono prudenti dalle tane, poi sempre più invadenti e arroganti e, certi ormai che nessuno li avrebbe contrastati, invadevano tutta l’anima.
Si appoggiò alla parete. A poco a poco il senso di oppressione passò.
Fuori della stanza il servo lo attendeva con uno sguardo un po’ inquieto.
- C’è Samuel alla porta, padrone. E’ venuto a pagare le tasse.
- Sto seduto al banco del mercato tutti i giorni. Perché è venuto a casa?
- Non me lo ha detto. Ha detto solo così: “Chiama il tuo padrone. Gli devo pagare le tasse”
- Uhm – rispose con un grugnito.
Sulla soglia della porta attendeva un uomo alto, dall’aria inquieta, si guardava alle spalle come se temesse di essere visto.
Zaccheo lo fece entrare e il servo richiuse in fretta la porta.
- Perché non sei venuto al mio banco al mercato?
- Non voglio guai con i romani. Le maledette tasse le devo pagare. Ma io lavoro tutti i giorni con gli ebrei. E non voglio guai neanche con loro... Tu capisci...
- Si, capisco.
Zaccheo lo guardò da sotto in su. Arrivava a malapena al petto di Samuel. Non che l’uomo fosse molto alto. Era lui che era troppo basso.
Ricordava come fosse ora gli scherni degli altri bambini all’uscita della scuola della sinagoga. Samuel in testa a tutti, che gli si parava davanti sovrastandolo. Nano, sei già in ginocchio?, e rideva. No, è in piedi, gridavano gli altri, ma riesce a mangiare la polvere lo stesso. E quello era il segnale che dava inizio al pestaggio.
Quando tornava a casa pesto e graffiato, i vesti strappati, suo padre lo guardava con disprezzo. Come lo feriva quello sguardo! Se ne andava in magazzino e dalla cucina, seduto sul tavolo, lo sentiva gridare ai garzoni. Sua madre invece lo abbracciava e con delicatezza gli puliva le ferite.
E gli sorrideva. Quel sorriso era l’unica cosa che ricordava di sua madre.
Per una madre non è importante l’altezza del figlio, la sua intelligenza o la sua forza. E’ suo figlio e basta. E lo ama per questo solo fatto.
Quel sorriso... perché se ne era andata così presto? Perché l’Altissimo era stato così crudele?
Samuele lo guardava cercando di indovinare i suoi pensieri, ma non osava interromperlo. Era sulle spine. Si capiva che non vedeva l’ora di uscire di lì, ma non osava mettere fretta a quel verme per non peggiorare la situazione. Giocherellava con il cordone della borsa e cercava di non guardarlo negli occhi, tenendosi un po’ a distanza, per non sovrastarlo troppo con la sua statura.
- Venti sicli – disse Zaccheo col tono di un giudice che pronuncia una sentenza di morte.
- Che cosa? Te ne ho dati dieci il mese scorso!
- Sono le nuove disposizioni dei romani. O paghi o mando a chiamare il centurione.
- Maledetto!
- Attendo a come parli. – lo fissò duro Zaccheo. - O diventano venticinque – aggiunse con un sorriso feroce.
Samuele gettò stizzito la borsa aperta sul tavolo sparpagliando le monete in tutte le direzioni. Poi se ne andò sbattendo la porta mentre il servo si affannava a correre dietro alle monete cadute per terra e che sembrava si divertissero a ritolare negli angoli più nascosti.
- Non vuoi la ricevuta? – gli gridò dietro Zaccheo ridendo.
Contò scrupolosamente le monete sul tavolo e poi quelle che il servo aveva recuperato.
Venti sicli esatti. Sembrava se lo aspettasse.
Rimise le monete nella borsa e tornò nella sua stanza.
Aprì un forziere con una grossa chiave che teneva nella cintura e contemplò i sacchetti di denaro allineati con cura.
Vendetta.
Sua madre era morta quando aveva appena compiuto dodici anni, come se anche lei avesse voluto abbandonarlo all’inizio della maggiore età, quando ormai non poteva più proteggerlo.
Suo padre non l’aveva mai amato. Lo trattava poco meglio di un garzone nonostante avesse dimostrato più volte che negli affari ci sapeva fare.
Quando un giorno suo padre morì di crepacuore (forse erano state tutte le maledizioni dei debitori) Zaccheo, ancora ventenne, aveva ereditato il più grosso commercio di porpora a nord del mare di Araba.
Poi un giorno aveva sentito dire che i romani cercavano un appaltatore per le imposte per tutta la zona di Gerico. Era un affare importante perché dal centro doganale di Gerico passava tutto il traffico commerciale con la Perea, l’Arabia e oltre ancora.
Aveva venduto tutto e si era lanciato nella nuova attività.
Ma non l’aveva fatto per i soldi. Certo anche per quelli, ma sopratutto per il potere.
Sapeva che scegliendo di collaborare con gli odiati romani si sarebbe attirato l’odio del suo popolo, ma ormai più di così...
Dio lo aveva tradito facendolo venire al mondo con quell’aspetto ridicolo. E poi portandogli via sua madre. Che gliene importava ormai della sua legge?
Con gli abitanti di Gerico, poi, aveva un conto in sospeso da anni. E gli interessi ormai erano diventati enormi.
E li avrebbero pagati fino all’ultimo spicciolo.
Vendetta.
Richiuse il forziere con colpo violento, ma nell’alzarsi sentì arrivare un altro attacco di asma.
Si sedette allora sul forziere slacciandosi un po’ la veste, cercando di respirare più profondamente possibile.
L’attacco lentamente passò.
Si alzo ancora un po’ spossato e pensò di chiamare il servo e farsi portare un po’ di vino, ma nell’uscire dalla stanza udì un rumore di folla provenire dalla strada.
Chiese al servo spiegazioni, ma questi non sapeva nulla.
Allora salì sulla terrazza. Il rumore veniva da oltre un gruppo di case, nascosto alla sua vista.
Scese in strada.
Il clamore cresceva, ma non sembrava un tumulto. Ogni tanto si udivano grida più distinte di entusiasmo, applausi e cori e risa.
Vide un ragazzo che veniva nella sua direzione e gli chiese se ci fosse per caso un tumulto.
- No – rispose il ragazzo. – E’ il rabbi di Nazareth che sta arrivando!
- Il rabbi di Nazareth? Quello che fa i miracoli?
- Si. Corro avanti e vedo se riesco a portare mia madre almeno sulla soglia di casa. E’ da tanto che lo vuole vedere. Magari la guarisce.
Il ragazzo scappò via.
Il rabbi di Nazareth... Dicono che ha un aspetto imponente, quasi un gigante.
Zaccheo fu sopraffatto dalla curiosità.
Chissà se è davvero così alto? Che ci viene a fare a Gerico?
Si rese subito conto che con quella folla e la statura che si ritrovava avrebbe visto ben poco. Pensò allora di tornare casa e di appostarsi sulla terrazza, ma lo avrebbero sicuramente notato e per quel giorno non aveva voglia di altre maledizioni.
Dall’altra parte della strada c’era un bel sicomoro frondoso. Pensò così di arrampicarsi lassù e nascondersi fra le foglie. Vide che l’albero aveva alcuni rami bassi che gli avrebbero facilitato la salita e corse verso l’albero per salirvi prima dell’arrivo della gente.
L’arrampicata non fu così facile come aveva pensato. Non aveva più l’età per quelle cose e la vita di mollezze che aveva condotto non lo stava certo facilitando.
Mentre tentava quella goffa scalata due passanti lo riconobbero:
- Ehi, Zaccheo! Stai cercando un ramo per impiccarti? Se vuoi ti diamo una mano!
E si allontanarono sghignazzando.
Ridete, ridete. Vi ho visto. Dovrete anche voi pagare le tasse.
Sbuffando e graffiandosi mani e ginocchia riuscì a salire a metà altezza e lì, nascosto fra le fronde, si dispose ad attendere l’arrivo del famoso rabbi.
Da dietro una svolta sbucarono le prime persone, poi una folla sempre più grande di uomini, donne, bambini di tutte le condizioni sociali, uomini ben vestiti e pezzenti.
Un po’ in disparte, rasentando gli edifici, come per non contaminarsi con gli impuri c’era anche un gruppo di farisei, impaludati nei loro abiti pieni di frange e filatteri.
Nel centro, appena un po’ meno oppresso dalla calca grazie a un gruppo di uomini robusti che gli facevano largo a forza di gomitate, avanzava un uomo.
Aveva una veste bianca sotto un mantello blu scuro.
Non è poi così alto come dicono. Stupido Zaccheo, che cosa ti è saltato in testa di salire fin quassù? E adesso dovrò stare appollaiato quassù come un corvo finché non se ne sono andati tutti prima di poter scendere...
Studiò meglio quell’uomo. Era un po’ più alto degli altri, d’accordo, ma non più di tanto. Ma soprattutto colpivano i modi semplici, familiari, con cui trattava la gente.
Vedeva come accarezzava un bambino che gli capitava tra i piedi, come toccava la spalla di un mendicante o diceva una parola a una donna che gli si parava davanti per chiedergli chissà cosa.
Quando il corteo giunse sotto il sicomoro l’uomo si fermò. Alzò lo sguardo e gridò:
- Zaccheo, scendi. Questa sera verrò a cena a casa tua.
Allora anche tutti gli altri si accorsero dell’esattore appollaiato sul sicomoro.
Qualcuno sghignazzava, qualcun’altro avrebbe voluto prenderlo a sassate, ma nessuno in realtà fece niente. Anzi, a poco a poco il clamore si calmò.
Zaccheo fissò quell’uomo senza una parola.
Quel sorriso!
Lo stesso di mia madre.
Per poco non perse la presa rischiando di finire su quelle teste che lo fissavano con ben poca simpatia.
Poi l’uomo si rimise in cammino. Zaccheo notò che all’uomo si era avvicinato uno dei suoi per parlargli all’orecchio tendendo il braccio verso il gruppo dei farisei che si era raccolto in un androne.
Aspettò che la folla passasse e poi, con precauzione, scese a terra e corse subito dal servo.
Quella sera la casa era illuminata a festa. Lampade e lanterne dappertutto.
Dall’interno si sentiva musica di flauti, timpani e cembali. Molti invitati erano già arrivati, altri stavano arrivando alla spicciolata. Tutti erano sorpresi da quell’invito, ma non potevano rifiutare: quasi tutta Gerico gli doveva dei soldi.
C’erano commercianti, altri pubblicani, ufficiali romani e mercanti greci.
C’erano anche delle donne, un po’ in disparte e che cercavano di coprirsi il più possibile con mantelli e veli per passare inosservate, ma gli anelli e i bracciali ai polsi e alle caviglie lasciavano ben pochi dubbi sulla loro identità e il loro mestiere.
Il gruppo di farisei era appostato presso la porta esterna un po’ discosto dal muto, bene attento a non toccare nulla e nessuno.
Stavano in silenzio o mormoravano fra loro brevi parole, come i cacciatori che prendono gli ultimi accordi mentre aspettano la preda al varco.
Sulla soglia stava Zaccheo e accoglieva tutti con un sorriso che nessuno gli aveva mai visto.
Sorrideva, ma dentro di lui l’ansia cresceva.
Verrà? Si sarà preso gioco di me?
Ma finalmente il rabbi di Nazareth venne.
Era attorniato dal gruppo dei suoi discepoli che, però, sulla soglia della casa si mostrarono piuttosto a disagio e qualcuno di loro fece notare al maestro i farisei.
E infatti, proprio mentre il maestro stava per entrare, uno di loro lo apostrofò:
- Maestro, lo sai di chi è la casa in cui stai per entrare? Un peccatore pubblico! Noi lo diciamo per te. Non conviene al buon nome del tuo insegnamento frequentare questa gente. Così facendo, con il tuo comportamento contraddici il tuo insegnamento!
- Il mio insegnamento? – rispose il maestro. - Chi di voi lo conosce veramente? Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Se siete sani o malati giudicatelo voi, ma non impedite a me di portare conforto a un cuore che soffre da troppi anni.
Poi disse ai suoi discepoli che se non se la sentivano potevano andare a casa e li avrebbe raggiunti poi. Ma, naturalmente, nessuno di loro a quel punto se la sentì di andarsene. Solo uno borbottò una scusa e si allontanò, subito seguito da uno dei farisei.
Poi tutti entrarono e la musica crebbe e le grida di gioia risuonarono.
Forse il maestro e i suoi discepoli non erano abituati a quel tipo di gente e a quei modi, ma non lo diede a vedere.
Zaccheo fece sedere il maestro al posto d’onore del lungo tavolo della sala delle feste.
Non lo perdeva di vista per un attimo mentre il maestro si fermava a dire una parola o a dare una carezza.
Non si poteva saziare di quel sorriso.
Infine tutti furono al loro posto e poco a poco si fece una silenzio imbarazzato. Tutti si aspettavano di iniziare le solite gozzoviglie, ma sulla tavola c’era per il momento solo il pane e le vivande e il vino non erano ancora state portate in tavola.
Il maestro era seduto al centro della tavola e tutt’intorno i suoi discepoli e gli invitati.
In piedi davanti a lui al centro della stanza stava Zaccheo, che fissava quel sorriso e sembrava non vedesse altro.
Poi improvvisamente si gettò in ginocchio:
- Signore, tu poco fa sulla porta hai letto il mio cuore meglio di chiunque altro. Perciò amici tutti ascoltate. Io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto!
Dagli invitati salì un mormorio. Chi commentava con il vicino questo strano cambiamento, chi faceva i conti dei soldi che avrebbe risparmiato, qualcun’altro, che mostrava di saperla lunga sul rabbi di Nazareth, raccontava dandosi arie di bene informato altri episodi clamorosi del maestro, qualche donna piangeva in silenzio e studiava il modo di avvicinarlo senza farsi vedere e senza dare scandalo.
Poi su tutto quel brusio si levò la voce del maestro:
- Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anche tu sei figlio di Abramo e il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.
Poi prese un pane e lo spezzo in due. Ne mangiò un boccone e diede l’altre metà a Zaccheo.
Mai pietanza di re fu per Zaccheo più saporita di quel pezzo di pane.
Infine il maestro si alzò, augurò la pace a Zaccheo e alla sua casa e seguito dai discepoli.

***
- E’ arrivato il carro per caricare il tavolo, padrone
Potete caricare.
Zaccheo uscì dalla sala e salì sul terrazzo. Vide i tetti Gerico e il cielo azzurro che cominciava a tingersi del rosso del tramonto.
Dall’altra parte della strada il sicomoro stormiva alla brezza dell’imbrunire.
Lo guardò con tenerezza e fece finalmente un bel respiro lungo e profondo.