mercoledì 25 marzo 2015
... O Sanguina
Ecco il mio ultimo (sofferto) cortometraggio
Una giovane killer incontra il suo vecchio capo. Forse un vecchio amore rinasce o forse...
sabato 2 giugno 2012
Nuoce gravemente alla salute
Questo è il mio primo cortometraggio.
Un dialogo fra un regista sfortunato e un angelo distratto
Un dialogo fra un regista sfortunato e un angelo distratto
martedì 17 aprile 2012
Il ritorno
Era
il 14 di Adar. I fedeli stavano uscendo dalla sinagoga dove avevano
celebrato
la
festa di Purim. Alcuni uomini tenevano per mano i figli che si
divertivano ancora a fare un gran baccano con i sonagli e i pezzi di
legno.
Un
padre rimproverava suo figlio: - Ti avevo detto che il sonaglio si
deve suonare solo
quando viene pronunciato il nome di Haman. Solo quello è il momento
di fare
baccano!
Tutti mi guardavano.
Mi hai fatto vergognare!
Un
giovane ubriaco dal passo incerto, sostenuto da un amico che lo
reggeva per
le
spalle,
passò davanti alla sinagoga e si fermò per un attimo a guardare la
gente che usciva.
Un
mendicante gli si avvicinò: - Vi prego, signore. Nel nome di Dio...
-
Vattene,
maiale puzzolente. Non vedi che ho da fare? – rispose infastidito.
–
Devo
celebrare la festa di Purim! – E scoppiò in una fragorosa risata.
-
Ti
prego, signore. Un piccolo aiuto per vivere...
-
Vattene
ti ho detto. Non hai sentito?
Ma
il mendicante insistette. Allora il giovane si divincolò dalle
braccia dell’amico e
si
gettò su di lui percuotendolo con calci e pugni. Poi, barcollando,
fece per allontanarsi,
ma
il mendicante, sputando il sangue che gli riempiva la bocca, mormorò:
- Me lo merito. Per me è giusto così, ma guarda bene che non accada
anche a te di diventare come me.
Ma
il giovane udì quelle parole e si voltò: - Che cosa hai detto
maiale schifoso?
Hai
anche il coraggio di maledire?
-
No,
signore. Non ti stavo maledicendo. Io sto ricevendo con queste
percosse un
giusto
castigo. Ma ti stavo augurando di non meritarlo anche tu pure.
-
Che
cosa vuoi dire? Che castigo dovrei meritare?
-
Ancora
niente. Ma io mi rivedo in te. Perché io ero proprio come te.
-
A
me non importa quello che eri. Vattene se non ne vuoi ancora!
Un
altro mendicante gli si avvicinò e lo prese per un braccio: -
Andiamo, ormai non
c’è
più nessuno. Non perdere tempo qui. Vuoi prendere altre botte?
Ma
il mendicante continuava a fissare il giovane e sembrava non
volersene
separare.
L’altro
mendicante insisteva: - Sbrighiamoci. Dall’altra parte del
villaggio la festa
nella
sinagoga non è ancora finita. Se ci affrettiamo possiamo arrivare in
tempo per
l’uscita.
Infine
il mendicante si lasciò condurre via, mentre il giovane ridendo
sgangheratamente
se
ne andava dalla parte opposta.
Arrivarono
alla sinagoga proprio mentre l’archisinagogo chiudeva la porta.
-
Troppo
tardi – disse l’anziano. – Se ne sono andati tutti. Ma tenete,
questo è per
voi.
– E diede loro una moneta per uno. Poi rientrò nella sinagoga e
sprangò l’uscio
dall’interno.
I
due mendicanti si sedettero per terra addossati alla parete. Il
secondo
mendicante
tirò fuori con calma una borsa da sotto la tunica sfilacciata e
cominciò a
contare
gli spiccioli che aveva raccolto.
-
Tredici
denari in tutto. Ci posso mangiare per tre giorni. Tu quanto hai
fatto?
-
Non
lo so. Adesso non ho voglia di contarli.
-
Ti
fa ancora male il labbro?
-
Non
è il labbro che mi fa male.
I
due rimasero in silenzio rimuginando i propri pensieri. Poi il
secondo mendicante
estrasse
da una bisaccia un pezzo di pane mezzo morsicato e si mise a
mangiarlo con
gusto.
-
Ma
davvero tu eri come lui? – chiese ad un tratto.
-
Si.
-
Come
ti chiami?
-
Ti
interessa davvero saperlo?
-
Beh,
non abbiamo niente da fare, non è ancora notte... possiamo anche
fare
quattro
chiacchiere. Non hai l’aria di uno che è cresciuto sulla strada.
-
No
– rispose con un sospiro. – Mi chiamo Samuele. Sono figlio di un
proprietario
terriero
di Gadara, nella Decapoli. La mia famiglia è della tribù di
Beniamino. In famiglia,
anche
se viviamo in mezzo ai gentili, siamo sempre stati molto osservanti
della legge.
«
Mio padre aveva due figli: mio fratello, il maggiore, grande
lavoratore, molto
serio,
e me, più giovane di lui di dieci anni, tutto l’opposto. Ero
ricco, scapestrato,
preferivo
le feste con gli amici al lavoro dei campi. Proprio come quel giovane
di poco fa.
-
Fossi stato io al tuo posto non avrei chiesto di meglio. E allora?
Come sei finito
così?
-
Mio padre mi lasciava fare perché aveva un debole per me. Mio
fratello invece
non
mi sopportava, forse proprio per questo. Gelosia, invidia... Forse
temeva che mio
padre
mi avrebbe fatto erede di tutti i beni della famiglia, non lo so. Non
perdeva
occasione
per rimproverarmi davanti a lui e maltrattarmi appena ne aveva
l’occasione.
Ma
mio padre prendeva spesso le mie difese. Era buono, mio padre.
-
E’
morto?
Samuel
chiuse gli occhi e deglutì un groppo: - Si - disse in un sussurro.
-
E
che cosa è successo poi?
-
Anche
se ero un po’ irresponsabile, ho sempre rispettato la legge e tutti
i
seicentotrentatre
precetti.
«
Ma un giorno, mentre mi trovavo in Giudea, a Lidda, vidi nella piazza
un gruppo
di
persone che ascoltava un rabbi che predicava. Mi informai con un
passante e seppi
che
era Gesù, il rabbi di Nazareth, di cui si faceva un gran parlare.
Incuriosito mi
avvicinai
e ascoltai una disputa con alcuni farisei che gli avevano posto una
questione a
proposito
del ripudio. Mi piaceva quel modo di parlare, ne fui affascinato.
Quell’uomo
aveva
un modo di spiegare la legge così semplice che in nessuna sinagoga
avevo
trovato.
«
Vidi che stava per andarsene e allora, per trattenerlo ancora un po’
e sentirlo
ancora
parlare mi feci avanti e gli posi una domanda: “Che cosa devo fare
per avere la
vita
eterna?” gli chiesi. “Osserva i comandamenti”, mi rispose.
Quella risposta mi deluse
un
po’. Avrei potuto ricevere la stessa risposta in qualunque
sinagoga. Ma insistetti e gli
dissi:
“Questo lo faccio fin da bambino”. Allora mi guardò, uno sguardo
che non
dimenticherò
mai. Sembrava che con un’occhiata avesse visto tutto quello che
c’era in
fondo
al mio cuore, ma non era rimprovero. Sembravano piuttosto gli occhi
di un amico
che
finalmente ha l’occasione di dirti qualcosa di veramente
importante, di prezioso per
lui
e per te. “Se vuoi essere perfetto”, disse, “va', vendi quello
che possiedi, dallo ai
poveri
e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”.
«
Quello sì che non l’avei sentito
dire in nessuna sinagoga! Fu come uno schiaffo,
di
quelli che ti risvegliano dai sogni, che ti riportano alla realtà.
Non sapevo che cosa
rispondere.
Rimasi lì, fermo, a fissarlo imbarazzato per un po’, poi me ne
andai.
«
Mi aveva deluso, non poteva chiedermi questo. La ricchezza è una
benedizione
di
Dio. La Scrittura lo ripete molte volte. Come poteva chiedermi di
dare tutto ai poveri?
Non
davo forse l’elemosina ogni sabato? Perché lasciare tutto? E poi
di che cosa avrei
vissuto?
«
Pensavo a queste cose mentre mi allontanavo, eppure dovevo ammettere
che
quell’uomo
mi aveva rivelato una cosa che sentivo già dentro al cuore da tempo,
ma che non avevo mai avuto il coraggio di ammettere: a me la
ricchezza piaceva tanto, ma così tanto che avrei fatto qualunque
cosa per averne sempre di più.
«
Eh, lo so. Solo adesso, guardandomi, capisco quanto fossi stupido.
Eppure a
quel
tempo, nonostante la pensassi così, non stavo facendo niente per
accrescere la
ricchezza
che possedevo. Anzi stavo sciupando quella di mio padre senza
lavorare.
«
Decisi allora di tornare da lui e mettermi anch’io in affari.
Presto, sognavo, avrei
superato
anche lui quanto a ricchezze e beni in questo mondo.
«
Così partii per tornare al mio paese, ma lungo
la strada incontrati una carovana
di
commercianti greci che faceva la mia stessa strada e così mi unii a
loro.
«
Il capo si chiamava Demetrios e commerciava porpora con l’Arabia e
con la
Grecia.
Seppi così che la porpora era molto richiesta, soprattutto a Roma, e
che chi
aveva
un po’ di danaro avrebbe fatto facilmente un gran guadagno
investendolo in un
carico
di porpora da piazzare sul mercato della capitale dell’impero.
«
Con questo sogno di facili e mirabolanti ricchezze, arrivato a casa
di mio padre
non
esitai a chiedere una grossa somma di danaro da investire in una
partita di porpora.
«
Mio padre cercò di dissuadermi cercando di farmi capire che se avevo
voglia di
lavorare
avrei potuto andare in campagna ad aiutare mio fratello, e questo
avrebbe forse migliorato anche i nostri rapporti.
«
Ma io non volli sentire ragioni e per giorni insistetti nella mia
richiesta, finché un
giorno,
esasperato per l’ultimo litigio, dissi a mio padre: “Io me ne
vado. Dammi la parte
che
mi spetta”
«
Per mio padre fu come una pugnalata la cuore. Cercò di dissuadermi,
ma io
ormai
ero irremovibile. Ero disposto a tutto pur di seguire il mio sogno.
«
Così qualche giorno dopo mio padre vendette metà delle sue terre,
mise il
denaro
in un forziere mi dette la chiave davanti a mio fratello. “Questo,
figlio mio”, mi
disse,
“è la ferita più grave che potessi farmi. Con questo atto non hai
diviso solo le
nostre
proprietà, ma hai spaccato in due anche il mio cuore. E adesso va, e
che
l’Altissimo
abbia pietà di te”
«
Mio fratello non disse niente. E non venne neppure a dirmi addio alla
partenza.
Per
lui, ormai, era come se non fossi mai esistito.
«
Ma di mio fratello non mi curavo. Avevo un forziere pieno di denaro,
l’asino
carico
e il cuore gonfio di ambizioni. Davanti a me si apriva un mondo pieno
di piaceri,
divertimenti
e ricchezze a non finire. Quanto il mio cuore fosse cieco lo imparai
molto
presto.
«
Andai nella Siro-Fenicia e mi stabilii a Tiro, nella zona del porto.
Comprai subito
una
casa e cominciai a cercare di concludere qualche buon affare. Ma il
porto di Tiro
aveva
anche altre attrattive oltre agli affari. In poco tempo sperperai con
le donne e il
gioco
metà del capitale.
«
Allora, per non rischiare di non rimare del tutto senza risorse,
grazie alle
conoscenze
che avevo fatto nelle osterie, cercai una spedizione di porpora da
finanziare.
«
La trovai nel giro di una settimana: un mercante della Perea cercava
un
armatore
che gli mettesse a disposizione una nave per trasportare a Roma un
carico di
porpora.
Al ritorno si sarebbe fatto a metà con il guadagno. Sembrava
l’affare fatto
apposta
per me. Andai di corsa da un mio conoscente che possedeva una nave,
non
molto
grande, ma sufficiente a contenere il carico, e che sapevo voleva
vendere.
La acquistai e la pagai con tutto il denaro che mi rimaneva, ma non
era sufficiente e ci
mettemmo
d’accordo che il resto glielo avrei dato al ritorno del mercante,
quando ci
saremmo
divisi il guadagno.
«
Ma il carico non arrivò mai a destinazione. Una settimana dopo la
partenza la
nave
fece naufragio. Qualche marinaio si salvò, ma il carico andò
perduto e il mercante
annegò.
E io ero sul lastrico.
Il
sole stava ormai scendendo oltre l’orizzonte e Samuele interruppe
il racconto.
Girò
lo sguardo sul compagno e vide che stava sonnecchiando.
Allora
si alzò e si allontanò con passo un po’ incerto alla ricerca di
un rifugio per la
notte.
Il labbro si era gonfiato e pulsava dolorosamente.
***
Camminò
per dieci miglia, finché, ormai in piena notte, di
fermò sotto un albero e
si
addormentò.
Il
mattino seguente raggiunse la città di Arimatea e andò subito sulla
piazza del
mercato
e,
appoggiato ai piedi di una colonna cominciò a mendicare.
Non
era ancora mezzogiorno quando udì un tramestio di folla che
proveniva
dall’ingresso
della piazza. Ragazzi e adulti, commercianti e contadini, si alzavano
e
correvano
da quella parte. Fermò un ragazzo e gli chiese che cosa stesse
succedendo.
-
E’ il rabbi di Nazareth! – rispose. - Lo aspettavamo da ieri. Il
mio padrone
Giuseppe
ci aveva messi tutti all’erta.
Il
rabbi di Nazareth...
Non
aveva il coraggio e neppure la forza di alzarsi. Il cuore in tumulto,
non sapeva
che
cosa fare. Così non fece niente. Si rannicchiò nascondendo il volto
fra le ginocchia
mentre
un singhiozzo lo scuoteva.
Il
rumore veniva verso di lui. Allora alzò lo sguardo e vide tra il
velo delle lacrime
che
il rabbi si era seduto sotto il suo stesso portico, distante circa
una ventina di passi.
D’improvviso
di fece silenzio e la voce del maestro echeggiò sotto le volte del
portico
giungendo fino a lui, chiara e limpida.
-
Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: “Padre,
dammi la parte
del
patrimonio che mi spetta”. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose,
partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo
da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande
carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
***
La
notizia arrivò con il marinaio superstite del naufragio. Una nave lo
aveva
raccolto
al porto di Malta e lo aveva riportato a Tiro.
Vennero
dei conoscenti a riferirgli il fatto mentre era in un’osteria
proprio insieme
al
suo creditore.
-
O paghi entro un mese – gli disse l’uomo. – Oppure mi prendo i
tuoi beni e te
stesso
e ti faccio schiavo per debiti finché non mi avrai pagato fino
all’ultimo spicciolo.
Poi
se ne andò senza nemmeno salutare.
Alla
scadenza del termine, naturalmente, non aveva di che pagare e così,
trascinato
davanti al giudice, venne giudicato colpevole e condannato alla
schiavitù
finché
non avesse pagato l’intero debito.
***
-
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella
regione, che lo
mandò
nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che
mangiavano
i porci;
ma nessuno gliene dava.
«
Allora rientrò in se stesso e disse: “Quanti salariati in casa di
mio padre hanno
pane
in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e
andrò da mio padre e gli dirò:
Padre,
ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di
esser chiamato
tuo
figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.
***
Seduto
su un monticello di terra osservava la mandria di porci che grufolava
nel
querceto.
Il suo nuovo padrone aveva proprio avuto un pensiero gentile...
Gli
aveva sputato in faccia tutto quello che pensava degli ebrei e della
loro
schizzinosità
nel
trattare con i gentili. E gli aveva affibbiato un lavoro fatto
apposta per lui e per quelli della sua razza, per abbassare la loro
superbia.
Ma
quella sera l’avrebbe fatta finita. Aveva già notato il varco
della recinzione.
Con
il
favore delle tenebre si sarebbe dileguato nella boscaglia. Poco
gliene sarebbe
importato
al suo padrone. La perdita subita non era poi così grande. Più che
altro quella
condizione
di schiavitù era un atto di vendetta verso quelli della sua razza.
Comunque
poco importava. Certo suo padre non l’avrebbe accolto a braccia
aperte,
ma almeno un pezzo di pane non glielo avrebbe negato. Non aveva più
diritti, lo
sapeva,
ma, anche come contadino, in quelle terre si sarebbe trovato
sicuramente
meglio
che a pascolare porci.
***
-
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il
padre lo vide
e
commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
«
Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di
te; non sono più
degno
di esser chiamato tuo figlio”.
«
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più
bello e rivestitelo,
mettetegli
l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso,
ammazzatelo,
mangiamo
e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato
in vita, era
perduto
ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa”.
***
La
casa era ancora come la ricordava. Lì vicino scorreva il ruscello in
cui da
piccolo
aveva sguazzato tante volte.
Sull’aia
non c’era nessuno, e neppure nei campi all’intorno. Sembrava
tutto
abbandonato,
ma sapeva che non era così. Poco prima di arrivare in vista del
paese
aveva
visto un ragazzino che lo aveva riconosciuto ed era scappato via.
Giunto
di fronte alla porta esitò, incerto se bussare o attendere che
qualcuno
uscisse.
Dov’era suo padre?
Lentamente
la porta si aprì e uscì suo fratello.
Lo
fissava senza dire nulla.
-
Dov’è
mio padre? – chiese.
-
Chi
sei?
-
Sono
tuo fratello, non mi riconosci?
-
Io
non ho fratelli. Quello che avevo è morto. E morto è anche mio
padre,
pugnalato
al cuore proprio da lui. Vattene, non voglio assassini sulla mia
terra.
Il
silenzio si fece di piombo. D’improvviso percepì tutta l’ostilità
degli sguardi che lo
osservavano
da dietro le tende. I cani si erano accucciati con il muso fra le
zampe, le
galline
che di solito razzolavano nell’aia, erano sparite. Neppure gli
asini ragliavano.
Lentamente
si voltò e incespicando se ne andò verso la boscaglia.
***
Le
lacrime scorrevano silenziose mentre la folla lentamente si
disperdeva. Con il
volto
nascosto tra le ginocchia non vide l’uomo che si era fermato
davanti a lui.
D’un
tratto si accorse dell’ombra che gli aveva coperto il sole e
sollevò lo sguardo.
Davanti
a lui c’era il rabbi di Nazareth che lo guardava.
-
E’ morto – riuscì a dire tra i singhiozzi. – Non mi ha
perdonato. Non è andata
come
hai detto tu.
-
Non è vero – disse il rabbi. E chinatosi lo prese per le spalle,
lo fece alzare e gli
sollevò
il volto rigato di lacrime impastate di polvere.
Allora,
di fronte a quello sguardo, Samuele capì. E il rabbi lo abbracciò
con
l’intensità
e l’affetto che solo un padre può avere.
-
Ora puoi seguirmi. Ben tornato a casa, figlio mio.
Un lungo e profondo respiro
- Gli
operai hanno caricato tutti gli sgabelli. Faccio caricare anche il
tavolo?
- No. Per ora mandate a Samuel i sedili. Ditegli che gli manderò il tavolo con il secondo viaggio. Non abbia paura, non intendo imbrogliarlo. Non più.
- Potete caricare.
- No. Per ora mandate a Samuel i sedili. Ditegli che gli manderò il tavolo con il secondo viaggio. Non abbia paura, non intendo imbrogliarlo. Non più.
Il
servo si ritirò lasciandolo solo nella grande stanza ormai quasi
vuota. Restava solo il lungo tavolo.
La
sala delle feste. Non restava molto dei drappi finissimi delle
pareti, dei triclini e dei sedili finemente intagliati, dei cuscini
di Damasco, degli ori di Arabia, dei tappeti preziosi e del vasellame
cinese che aveva fatto venire apposta attraverso la Persia. Quante
feste aveva fatto lì, donne e vino a fiumi. I romani venivano
apposta da Cesarea per partecipare alle orge del più ricco e più
spietato appaltatore d’imposte di Gerico.
Quella
stanza aveva visto il culmine del suo successo. E l’inizio della
sua nuova vita, soprattutto quel tavolo.
Quanto
tempo è passato? Solo due settimane? Incredibile, mi sembrano
secoli.
***
Quella
mattina gli attacchi di asma erano più forti del solito. Un senso di
oppressione, di soffocamento, con un respiro che non voleva arrivare
fino in fondo. Era come se i polmoni che non ne volessero sapere di
riempirsi.
Gli
succedeva sempre così quando lo prendevano quegli strani momenti di
depressione. Una inquietudine, una specie di sensazione ai margini
della coscienza che qualcosa nella sua vita non andava. Ma che cosa
non andava? Era l’uomo più ricco di Gerico, l’esattore delle
imposte più efficiente della regione. I romani avrebbero faticato
parecchio per trovare un altro come lui. Aveva denaro e potere. E
donne, se ne voleva.
Pensieri
che si affacciavano dapprima guardinghi, come topi che escono
prudenti dalle tane, poi sempre più invadenti e arroganti e, certi
ormai che nessuno li avrebbe contrastati, invadevano tutta l’anima.
Si
appoggiò alla parete. A poco a poco il senso di oppressione passò.
Fuori
della stanza il servo lo attendeva con uno sguardo un po’ inquieto.
- C’è
Samuel alla porta, padrone. E’ venuto a pagare le tasse.
- Sto
seduto al banco del mercato tutti i giorni. Perché è venuto a
casa?
- Non
me lo ha detto. Ha detto solo così: “Chiama il tuo padrone. Gli
devo pagare le tasse”
- Uhm
– rispose con un grugnito.
Sulla
soglia della porta attendeva un uomo alto, dall’aria inquieta, si
guardava alle spalle come se temesse di essere visto.
Zaccheo
lo fece entrare e il servo richiuse in fretta la porta.
- Perché
non sei venuto al mio banco al mercato?
- Non
voglio guai con i romani. Le maledette tasse le devo pagare. Ma io
lavoro tutti i giorni con gli ebrei. E non voglio guai neanche con
loro... Tu capisci...
- Si,
capisco.
Zaccheo
lo guardò da sotto in su. Arrivava a malapena al petto di Samuel.
Non che l’uomo fosse molto alto. Era lui che era troppo basso.
Ricordava
come fosse ora gli scherni degli altri bambini all’uscita della
scuola della sinagoga. Samuel in testa a tutti, che gli si parava
davanti sovrastandolo. Nano,
sei già in ginocchio?, e
rideva. No, è in piedi,
gridavano gli altri, ma
riesce a mangiare la polvere lo stesso.
E quello era il segnale che dava inizio al pestaggio.
Quando
tornava a casa pesto e graffiato, i vesti strappati, suo padre lo
guardava con disprezzo. Come lo feriva quello sguardo! Se ne andava
in magazzino e dalla cucina, seduto sul tavolo, lo sentiva gridare ai
garzoni. Sua madre invece lo abbracciava e con delicatezza gli puliva
le ferite.
E
gli sorrideva. Quel sorriso era l’unica cosa che ricordava di sua
madre.
Per
una madre non è importante l’altezza del figlio, la sua
intelligenza o la sua forza. E’ suo figlio e basta. E lo ama per
questo solo fatto.
Quel
sorriso... perché se ne era andata così presto? Perché l’Altissimo
era stato così crudele?
Samuele
lo guardava cercando di indovinare i suoi pensieri, ma non osava
interromperlo. Era sulle spine. Si capiva che non vedeva l’ora di
uscire di lì, ma non osava mettere fretta a quel verme per non
peggiorare la situazione. Giocherellava con il cordone della borsa e
cercava di non guardarlo negli occhi, tenendosi un po’ a distanza,
per non sovrastarlo troppo con la sua statura.
- Venti
sicli – disse Zaccheo col tono di un giudice che pronuncia una
sentenza di morte.
- Che
cosa? Te ne ho dati dieci il mese scorso!
- Sono
le nuove disposizioni dei romani. O paghi o mando a chiamare il
centurione.
- Maledetto!
- Attendo
a come parli. – lo fissò duro Zaccheo. - O diventano venticinque
– aggiunse con un sorriso feroce.
Samuele
gettò stizzito la borsa aperta sul tavolo sparpagliando le monete in
tutte le direzioni. Poi se ne andò sbattendo la porta mentre il
servo si affannava a correre dietro alle monete cadute per terra e
che sembrava si divertissero a ritolare negli angoli più nascosti.
-
Non vuoi la ricevuta? – gli gridò dietro Zaccheo ridendo.
Contò
scrupolosamente le monete sul tavolo e poi quelle che il servo aveva
recuperato.
Venti
sicli esatti. Sembrava se lo aspettasse.
Rimise
le monete nella borsa e tornò nella sua stanza.
Aprì
un forziere con una grossa chiave che teneva nella cintura e
contemplò i sacchetti di denaro allineati con cura.
Vendetta.
Sua
madre era morta quando aveva appena compiuto dodici anni, come se
anche lei avesse voluto abbandonarlo all’inizio della maggiore età,
quando ormai non poteva più proteggerlo.
Suo
padre non l’aveva mai amato. Lo trattava poco meglio di un garzone
nonostante avesse dimostrato più volte che negli affari ci sapeva
fare.
Quando
un giorno suo padre morì di crepacuore (forse erano state tutte le
maledizioni dei debitori) Zaccheo, ancora ventenne, aveva ereditato
il più grosso commercio di porpora a nord del mare di Araba.
Poi
un giorno aveva sentito dire che i romani cercavano un appaltatore
per le imposte per tutta la zona di Gerico. Era un affare importante
perché dal centro doganale di Gerico passava tutto il traffico
commerciale con la Perea, l’Arabia e oltre ancora.
Aveva
venduto tutto e si era lanciato nella nuova attività.
Ma
non l’aveva fatto per i soldi. Certo anche per quelli, ma
sopratutto per il potere.
Sapeva
che scegliendo di collaborare con gli odiati romani si sarebbe
attirato l’odio del suo popolo, ma ormai più di così...
Dio
lo aveva tradito facendolo venire al mondo con quell’aspetto
ridicolo. E poi portandogli via sua madre. Che gliene importava
ormai della sua legge?
Con
gli abitanti di Gerico, poi, aveva un conto in sospeso da anni. E gli
interessi ormai erano diventati enormi.
E
li avrebbero pagati fino all’ultimo spicciolo.
Vendetta.
Richiuse
il forziere con colpo violento, ma nell’alzarsi sentì arrivare un
altro attacco di asma.
Si
sedette allora sul forziere slacciandosi un po’ la veste, cercando
di respirare più profondamente possibile.
L’attacco
lentamente passò.
Si
alzo ancora un po’ spossato e pensò di chiamare il servo e farsi
portare un po’ di vino, ma nell’uscire dalla stanza udì un
rumore di folla provenire dalla strada.
Chiese
al servo spiegazioni, ma questi non sapeva nulla.
Allora
salì sulla terrazza. Il rumore veniva da oltre un gruppo di case,
nascosto alla sua vista.
Scese
in strada.
Il
clamore cresceva, ma non sembrava un tumulto. Ogni tanto si udivano
grida più distinte di entusiasmo, applausi e cori e risa.
Vide
un ragazzo che veniva nella sua direzione e gli chiese se ci fosse
per caso un tumulto.
- No
– rispose il ragazzo. – E’ il rabbi di Nazareth che sta
arrivando!
- Il
rabbi di Nazareth? Quello che fa i miracoli?
- Si.
Corro avanti e vedo se riesco a portare mia madre almeno sulla
soglia di casa. E’ da tanto che lo vuole vedere. Magari la
guarisce.
Il
ragazzo scappò via.
Il
rabbi di Nazareth... Dicono che ha un aspetto imponente, quasi un
gigante.
Zaccheo
fu sopraffatto dalla curiosità.
Chissà
se è davvero così alto? Che ci viene a fare a Gerico?
Si
rese subito conto che con quella folla e la statura che si ritrovava
avrebbe visto ben poco. Pensò allora di tornare casa e di appostarsi
sulla terrazza, ma lo avrebbero sicuramente notato e per quel giorno
non aveva voglia di altre maledizioni.
Dall’altra
parte della strada c’era un bel sicomoro frondoso. Pensò così di
arrampicarsi lassù e nascondersi fra le foglie. Vide che l’albero
aveva alcuni rami bassi che gli avrebbero facilitato la salita e
corse verso l’albero per salirvi prima dell’arrivo della gente.
L’arrampicata
non fu così facile come aveva pensato. Non aveva più l’età per
quelle cose e la vita di mollezze che aveva condotto non lo stava
certo facilitando.
Mentre
tentava quella goffa scalata due passanti lo riconobbero:
- Ehi,
Zaccheo! Stai cercando un ramo per impiccarti? Se vuoi ti diamo una
mano!
E si allontanarono sghignazzando.
Ridete, ridete. Vi ho visto.
Dovrete anche voi pagare le tasse.
Sbuffando e graffiandosi mani e
ginocchia riuscì a salire a metà altezza e lì, nascosto fra le
fronde, si dispose ad attendere l’arrivo del famoso rabbi.
Da dietro una svolta sbucarono le
prime persone, poi una folla sempre più grande di uomini, donne,
bambini di tutte le condizioni sociali, uomini ben vestiti e
pezzenti.
Un po’ in disparte, rasentando gli
edifici, come per non contaminarsi con gli impuri c’era anche un
gruppo di farisei, impaludati nei loro abiti pieni di frange e
filatteri.
Nel centro, appena un po’ meno
oppresso dalla calca grazie a un gruppo di uomini robusti che gli
facevano largo a forza di gomitate, avanzava un uomo.
Aveva una veste bianca sotto un
mantello blu scuro.
Non è poi così alto come dicono.
Stupido Zaccheo, che cosa ti è saltato in testa di salire fin
quassù? E adesso dovrò stare appollaiato quassù come un corvo
finché non se ne sono andati tutti prima di poter scendere...
Studiò meglio quell’uomo. Era un
po’ più alto degli altri, d’accordo, ma non più di tanto. Ma
soprattutto colpivano i modi semplici, familiari, con cui trattava la
gente.
Vedeva come accarezzava un bambino che
gli capitava tra i piedi, come toccava la spalla di un mendicante o
diceva una parola a una donna che gli si parava davanti per
chiedergli chissà cosa.
Quando il corteo giunse sotto il
sicomoro l’uomo si fermò. Alzò lo sguardo e gridò:
- Zaccheo,
scendi. Questa sera verrò a cena a casa tua.
Allora
anche tutti gli altri si accorsero dell’esattore appollaiato sul
sicomoro.
Qualcuno
sghignazzava, qualcun’altro avrebbe voluto prenderlo a sassate, ma
nessuno in realtà fece niente. Anzi, a poco a poco il clamore si
calmò.
Zaccheo
fissò quell’uomo senza una parola.
Quel
sorriso!
Lo
stesso di mia madre.
Per
poco non perse la presa rischiando di finire su quelle teste che lo
fissavano con ben poca simpatia.
Poi
l’uomo si rimise in cammino. Zaccheo notò che all’uomo si era
avvicinato uno dei suoi per parlargli all’orecchio tendendo il
braccio verso il gruppo dei farisei che si era raccolto in un
androne.
Aspettò
che la folla passasse e poi, con precauzione, scese a terra e corse
subito dal servo.
Quella
sera la casa era illuminata a festa. Lampade e lanterne dappertutto.
Dall’interno
si sentiva musica di flauti, timpani e cembali. Molti invitati erano
già arrivati, altri stavano arrivando alla spicciolata. Tutti erano
sorpresi da quell’invito, ma non potevano rifiutare: quasi tutta
Gerico gli doveva dei soldi.
C’erano
commercianti, altri pubblicani, ufficiali romani e mercanti greci.
C’erano
anche delle donne, un po’ in disparte e che cercavano di coprirsi
il più possibile con mantelli e veli per passare inosservate, ma gli
anelli e i bracciali ai polsi e alle caviglie lasciavano ben pochi
dubbi sulla loro identità e il loro mestiere.
Il
gruppo di farisei era appostato presso la porta esterna un po’
discosto dal muto, bene attento a non toccare nulla e nessuno.
Stavano
in silenzio o mormoravano fra loro brevi parole, come i cacciatori
che prendono gli ultimi accordi mentre aspettano la preda al varco.
Sulla
soglia stava Zaccheo e accoglieva tutti con un sorriso che nessuno
gli aveva mai visto.
Sorrideva,
ma dentro di lui l’ansia cresceva.
Verrà?
Si sarà preso gioco di me?
Ma
finalmente il rabbi di Nazareth venne.
Era
attorniato dal gruppo dei suoi discepoli che, però, sulla soglia
della casa si mostrarono piuttosto a disagio e qualcuno di loro fece
notare al maestro i farisei.
E
infatti, proprio mentre il maestro stava per entrare, uno di loro lo
apostrofò:
- Maestro,
lo sai di chi è la casa in cui stai per entrare? Un peccatore
pubblico! Noi lo diciamo per te. Non conviene al buon nome del tuo
insegnamento frequentare questa gente. Così facendo, con il tuo
comportamento contraddici il tuo insegnamento!
- Il
mio insegnamento? – rispose il maestro. - Chi di voi lo conosce
veramente? Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i
malati. Se siete sani o malati giudicatelo voi, ma non impedite a me
di portare conforto a un cuore che soffre da troppi anni.
Poi
disse ai suoi discepoli che se non se la sentivano potevano andare a
casa e li avrebbe raggiunti poi. Ma, naturalmente, nessuno di loro a
quel punto se la sentì di andarsene. Solo uno borbottò una scusa e
si allontanò, subito seguito da uno dei farisei.
Poi
tutti entrarono e la musica crebbe e le grida di gioia risuonarono.
Forse
il maestro e i suoi discepoli non erano abituati a quel tipo di gente
e a quei modi, ma non lo diede a vedere.
Zaccheo
fece sedere il maestro al posto d’onore del lungo tavolo della sala
delle feste.
Non
lo perdeva di vista per un attimo mentre il maestro si fermava a dire
una parola o a dare una carezza.
Non
si poteva saziare di quel sorriso.
Infine
tutti furono al loro posto e poco a poco si fece una silenzio
imbarazzato. Tutti si aspettavano di iniziare le solite gozzoviglie,
ma sulla tavola c’era per il momento solo il pane e le vivande e il
vino non erano ancora state portate in tavola.
Il
maestro era seduto al centro della tavola e tutt’intorno i suoi
discepoli e gli invitati.
In
piedi davanti a lui al centro della stanza stava Zaccheo, che fissava
quel sorriso e sembrava non vedesse altro.
Poi
improvvisamente si gettò in ginocchio:
- Signore,
tu poco fa sulla porta hai letto il mio cuore meglio di chiunque
altro. Perciò amici tutti ascoltate. Io do la metà dei miei beni
ai poveri e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto!
Dagli
invitati salì un mormorio. Chi commentava con il vicino questo
strano cambiamento, chi faceva i conti dei soldi che avrebbe
risparmiato, qualcun’altro, che mostrava di saperla lunga sul rabbi
di Nazareth, raccontava dandosi arie di bene informato altri episodi
clamorosi del maestro, qualche donna piangeva in silenzio e studiava
il modo di avvicinarlo senza farsi vedere e senza dare scandalo.
Poi
su tutto quel brusio si levò la voce del maestro:
- Oggi
la salvezza è entrata in questa casa, perché anche tu sei figlio
di Abramo e il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare
ciò che era perduto.
Poi
prese un pane e lo spezzo in due. Ne mangiò un boccone e diede
l’altre metà a Zaccheo.
Mai
pietanza di re fu per Zaccheo più saporita di quel pezzo di pane.
Infine
il maestro si alzò, augurò la pace a Zaccheo e alla sua casa e
seguito dai discepoli.
***
- E’
arrivato il carro per caricare il tavolo, padrone- Potete caricare.
Zaccheo
uscì dalla sala e salì sul terrazzo. Vide i tetti Gerico e il cielo
azzurro che cominciava a tingersi del rosso del tramonto.
Dall’altra
parte della strada il sicomoro stormiva alla brezza dell’imbrunire.
Lo
guardò con tenerezza e fece finalmente un bel respiro lungo e
profondo.
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